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La bevanda magica dei monaci zen

MARCO CERESA

Articolo pubblicato su La Domenica di Repubblica, 5 marzo 2006, p. 45.

 

Originale in formato in PDF

 

Se la «pianta di civiltà» (secondo la definizione di F. Braudel) par excellence dell’area sinica è il riso, il tè viene di sicuro buon secondo. Identifichiamo i cinesi come mangiatori di riso, bevitori di tè, e nemici del latte e dei latticini. La prima è una generalizzazione che non si applica a tutta l’estensione geografica della Cina (in cui distinguiamo invece una fascia del riso a sud e una fascia del grano a nord, con relativi consumi prevalenti), mentre la supposta avversione al latte è una questione dibattuta (la querelle dei lactofili e dei lactofobi resa celebre dall’antropologo Marvin Harris) e smentita dal recente aumento di consumo di latticini.

È invece innegabile che la pratica di bere il tè ha accomunato tutti i cinesi almeno a partire dalla dinastia Tang (618-906 dopo Cristo). La stessa pianta del tè, Camellia sinensis, è originaria del sud della Cina, un dato che, pur se messo in discussione sovente da un punto di vista storico-botanico, costituisce uno dei capisaldi della percezione della “cinesità”. Il primo riferimento letterario certo a un uso voluttuario della bevanda di tè compare nel Sanguo zhi (Memorie dei tre regni) di Chen Shou (233-297 dopo Cristo), e risale al 270 dopo Cristo circa. Tutti i riferimenti contenuti in fonti precedenti sono filologicamente poco affidabili, o riguardano un diverso consumo delle foglie di tè (generalmente come vegetale commestibile o come medicinale).

Solo a partire dalla pubblicazione del Chajing (il Canone del tè), il più antico trattato sul tè al mondo, composto da Lu Yu fra il 758 e il 760, la pratica di bere il tè è testimoniata in tutta la Cina e a tutti i livelli sociali. A questa diffusione ha contribuito non poco il buddismo Chan (Zen). I monaci zen usavano infatti il tè come stimolante per restare vigili durante le pratiche meditative, e portavano sempre con sé l’occorrente per preparare la bevanda durante i loro peregrinaggi per il paese. Il discorso sul tè in Cina (e al mondo), comincia proprio col Chajing, e investe agricoltura e economia, ma anche letteratura (soprattutto poesia), arti figurative e applicate (ceramiche, con l’invenzione della teiera), pratiche quotidiane e sociali (la casa da tè come luogo d’intrattenimento e scambio intellettuale). Dalla dinastia Tang fino alla dinastia Qing (1644-1911) vengono pubblicati più di cento trattati dedicati al tè in tutti i suoi aspetti, e una parte di essi si concentra addirittura sulla scienza di far bollire l’acqua per il tè.

La storia del tè in Cina si può suddividere, a seconda del metodo di preparazione prevalente, in tre fasi, coincidenti con diversi periodi storici: il tè bollito (dinastia Tang), il tè frullato (dinastia Song 960-1280) e il tè infuso (dalla dinastia Ming, 1368-1644, fino ai giorni nostri). Ciascuna di queste tre tecniche, che in alcuni periodi sono presenti contemporaneamente, prevede utensili diversi ed utilizza tè trattati in modo differente (rispettivamente: in pani, in polvere e in foglie). Il tè bollito consisteva in una zuppa di tè non filtrata, spesso aromatizzata con altri ingredienti. Il tè frullato in una sospensione di polvere finissima di tè, ottenuta frullando la polvere in acqua bollente con uno speciale frullino di bambù; da questa pratica ha avuto origine il tè matcha giapponese. Il tè ottenuto per infusione è la pratica prevalente al giorno d’oggi, ove le foglie sono messe in infusione o in un recipiente, dal quale poi direttamente si beve (la tazza col coperchio), o in una teiera.

Recita Lu Yu: «Tutte le creature viventi hanno bisogno di bere e di mangiare. Le circostanze nelle quali si beve hanno motivi profondi! Per placare la sete si beve acqua, per dare conforto alla melanconia si beve vino, per scacciare il torpore e la sonnolenza si beve il tè».

 

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